di A. Gröbner (Senior managing Partner)
Gli ultimi trenta o anche solo venti anni della storia dell’accountability in Europa, segnano un percorso per approssimazioni successive, in parte anche scoordinato, attraverso il quale si è cercato di sviluppare nuove forme di accountability a geometrie variabili.
Tutto ciò avveniva a latere dell’informativa finanziaria tipica della rendicontazione di bilancio, per altro da sempre saldamente ancorata a riferimenti indiscutibili come gli IAS/IFRS piuttosto che ai gaap nazionali adottati dai diversi stati membri e che per queste caratteristiche non permetteva di cogliere altri valori se non quelli prettamente contabili.
Negli anni che precedevano il cambio del millennio, iniziarono pioneristicamente a svilupparsi forme di rendicontazione assolutamente diverse da quelle tipiche finanziarie; penso ad esempio all’esperienza sud-africana attraverso la quale, sotto l’impulso della Commission for Gender Equality, dal 1996 si cominciò il lungo percorso del Gender reporting, cercando di tutelare maggiormente il lavoro femminile.
Contempraneamente, la Social Accountability International (SAI), organizzazione internazionale, nata nel 1997, per assicurare la responsabilità sociale attraverso un processo indipendente di controllo e di tutela dei lavoratori, emanava la norma SA 8000, oggi giunta alla 4° edizione.
Fatto sta che le differenze tra i due gender sono rimaste un tema attuale ancora oggi, soprattutto sul piano delle politiche retributive, tanto è vero che dal 2017 in paesi come la Gran Britannia, le imprese con più di 250 dipendenti sono obbligate a rendicontare all’apposito ufficio governativo, la cd. Gender pay gap calculation, evidenziando per i diversi livelli retributivi, gli scostamenti dalla media e dalle mediane tra genere maschile e femminile.
Questi caldi temi sociali, sebbene con le dovute differenziazioni di contesto, finirono per influenzare anche la vita politica ed amministrativa europea ed italiana (cfr. il Codice per le pari opportunità ex Dlgs. n. 198/2006 e la normativa sulle quote di genere ex L. 120/2011 ). Di pari passo, a livello europeo, si diffondeva massimamente la filosofia della cd. “corporate social responsability” (CSR), per cui anche i datori di lavoro privati diventarono sempre più sensibili alla parità dei diritti sul posto di lavoro, consapevoli di migliorare la visibilità e il proprio clima aziendale.
Tematiche e analisi come queste rientrano senz’altro nelle finalità di una rendicontazione assai più ampia, quale è la rendicontazione sociale, che come tale si riferisce ad una generalità amplissima di categorie di stakeholder e non esaurisce certo il suo compito nell’analizzare due sole categorie: lavoratrici e lavoratori.
In poco tempo, il modello concettuale della CSR e quindi l’esigenza di una più ampia rendicontazione sociale, si è rapidamente diffuso, anche grazie agli sforzi del Gruppo di studio per il Bilancio Sociale (Gruppo GBS).
Il Bilancio Sociale è stato definito dalla letteratura tecnica come un documento di rendicontazione contabile ed extracontabile redatto da un ente privato o pubblico, con il quale si espongono gli obiettivi, i rapporti finanziari, economici e patrimoniali nonché i risultati conseguiti in campo sociale attraverso la partecipazione attiva degli stakeholder o dei cd. “portatori d’interesse”.
Il bilancio sociale su base volontaria si diffuse sempre più rapidamente a partire dal mondo del no-profit: nel 2004 mi ricordo di avere collaborato alla stesura del primo bilancio sociale della Regione Veneto, in una vera e propria gara sui tempi con la Regione Lombardia.
In seguito ci fu una diffusione importante nel campo delle aziende quotate, istituti di credito e di altre istituzioni (es. cooperative e ONG) tanto che fu istituito il premio Oscar per il bilancio sociale all’interno del più generale Oscar di bilancio organizzato ancora oggi dalla Federazione Relazioni Pubbliche Italiana (FERPI) con Borsa Italiana e Università Bocconi.
Quindi si diffusero i primi sistemi di rating etico, i nuovi modelli di governance inclusiva e i modelli di compliance promossi dalle autorità pubbliche o da imprese di grandi dimensioni. Importanti imprese iniziarono forme di rendicontazione sociale, forse ancora poco improntate al rigore dei contenuti, ma con una crescente consapevolezza degli impatti dell’informativa non finanziaria sulla reputazione e sul valore della marca industriale.
Di lì a poco seguirono tanti altri esempi di importanti ONG, di multinazionali e di imprese nazionali, talora anche PMI.
Parallelamente alle diverse forme di rendicontazione non finanziaria su base volontaria, il legislatore europeo interviene decisamente sul piano della rendicontazione finanziaria obbligatoria, emanando dapprima con la Direttiva n. 34/2013 - c.d. Direttiva contabile relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recante modifica della direttiva 2006/43/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e abrogazione delle direttive 78/660/CEE e 83/349/CEE del Consiglio. Poi interviene la Direttiva Europea 2014/95/UE – che obbliga gli Enti di interesse pubblico a documentare le proprie performance ambientali e sociali.
Tutto ciò è stato puntualmente recepito in Italia con il Decreto Legislativo 254/2016 il quale a sua volta impone a tutte le imprese con un numero di dipendenti superiore a 500 e un totale dello stato patrimoniale superiore a 20 milioni di euro o ricavi di almeno 40 milioni di euro, la redazione, certificazione e pubblicazione della cd. “dichiarazione non finanziaria”.
Il bilancio sociale si è così tanto diffuso, anche in Italia, che dal 1° gennaio 2020 il codice del Terzo settore prevede l’obbligatorietà del bilancio sociale per gli altri enti con ricavi, rendite, proventi o entrate comunque denominate superiori ad 1 milione di euro.
Nel frattempo a livello europeo si era aperta una nuova finestra tematica: la rendicontazione ambientale. Infatti, nella “Raccomandazione del Consiglio d’Europa” del 2004, la Comunità sosteneva la contabilità ambientale come una nuova forma di CSR.
Ma come fare a raccordare due forme di rendicontazione così diverse come quella sociale e quella ambientale che in comune hanno solo il principio generale della CSR?
Ci ha pensato GRI o Global Reporting Initiative (GRI), una organizzazione con sede ad Amsterdam, nata per stabilire standard di comune applicazione per misurare e rendicontare gli impatti sulle tre diverse dimensioni della sostenibilità: quella economica, ambientale e sociale.
Il framework fornito da GRI rappresenta un passo fondamentale, riconosciuto a livello internazionale e la cui corretta applicazione, su base legale o volontaria, viene sottoposta ad apposita opinion di una società di revisione e certificazione.
Nello specifico, gli Standard GRI, applicabili in tutto o in parte a seconda delle specificità aziendali, sono costituiti da:
- 3 standard di carattere generale (Universal Standard) applicabili a tutte le organizzazioni
- 35 standard specifici dedicati alle tre aree della sostenibilità: Economica, Sociale e Ambientale.
Arriviamo all’estate del 2022 e nasce la nuova Direttiva “Corporate Sustainability Reporting Directive – CSRD” emendando il testo della Direttiva n. 34/2013, la c.d. Direttiva contabile, nonché alcuni altri atti normativi europei (Direttiva e Regolamento sull’audit, la “Transparency Directive”).
La nuova Direttiva denomina definitivamente questa forma di rendicontazione “reporting di sostenibilità” e non più “reporting non finanziario”. Scompare addirittura l’espressione «informazione non finanziaria».
Questa Direttiva ha quindi provveduto all’attuazione di veri propri standard europei dei reporting di sostenibilità su tutte le tematiche Enverinonmental, Social, Governance; da qui il tanto diffuso e attuale acronimo “ESG”.
Non poteva certo mancare una prospettiva multi-stakeholder, una prospettiva di settore (sector specific) e una prospettiva di natura generale (cd. sector agnostic) e inoltre l’informativa sostenibile ESG si rivolge ora a tutte le possibili tipologie di imprese, sino a comprendere società non quotate e PMI (su base volontaria).
Altri aspetti innovativi che caratterizzano l’intervento del legislatore europeo sono, l’introduzione del criterio di proporzionalità aprendo quindi ad un trattamento differenziato o meglio dire semplificato, dell’informativa per le PMI.
Ma la vera innovazione dei principi ESG è senz’altro la caratterista di portare gli amministratori a rendicontare obiettivi e azioni in prospettiva forward-looking del report di sostenibilità. Il bilancio di sostenibilità acquista una doppia funzione: da una parte espone i risultati raggiunti e dall’altra diventa un vero e proprio strumento di programmazione della sostenibilità.
La tassonomia (ndr. la codifica tecnica delle attività ecosostenibili in ogni settore) e lo standard dei contenuti della rendicontazione viene statuito dai General sustainability reporting principles che prevedono a loro volta tre serie di ESRS: la prima sui temi ambientali (da E1-E5), la seconda sui temi sociali (da S1-S4) e la terza sui temi della governance (ESRS G1 e G2).
In ogni caso i nuovi bilanci di sostenibilità dovranno fornire almeno i 3 specifici indicatori: quota di fatturato da attività previste dalla tassonomia, la relativa quota di Opex e di Capex.
A questo punto, se questa è la direzione in cui si devono muovere tutte le imprese europee, non può certo stupire la circostanza che la Corporate Sustainability Reporting Directive preveda una garanzia di affidabilità della rendicontazione imponendo la reasonable assurance dei report di sostenibilità, alla stessa stregua del bilancio d’esercizio.
Quali sono ora i prossimi step che la CE ha previsto?
Entro giugno 2024 la CE adotterà tutti gli altri standard ESRS (II serie) e i primi bilanci ESG usciranno nel 2025 con riferimento alla chiusura 31/12/2024.